Questa è nella TOP 10 delle domande che mi sono sentito rivolgere da quelli che mi hanno contattato. Comprensibile: al mondo non siamo tutti contabili. Davvero triste è stato constatare che, persino tra quelli che una partita IVA ce l’hanno, le idee sono tutt’altro che chiare.
Partiamo dal principio: che cos’è questa, benedetta, partita IVA? Si tratta di un codice, né più né meno. Non differisce molto dal codice fiscale o da quello sanitario, tutti codici che vi seguono, praticamente, dal giorno della vostra nascita e continueranno a farlo fino a quello della vostra dipartita. E’ burocrazia, detto in altre parole: un modo come un altro per mettere ordine nel caos dell’amministrazione pubblica. La partita IVA, però, è utile solo a chi decide di aprire una propria attività, per cui va richiesta con una dichiarazione di inizio delle attività all’Agenzia delle Entrate che ne assegnerà una gratuitamente. Tanto per esser chiari, si può andare da un commercialista ed incaricarlo di aprirne una per conto vostro, ma in questo caso, qualcosa dovrete pagare: la partita IVA di per sé è gratis, ma il commercialista no…
Per capire a cosa serve una partita IVA, bisogna capire cos’è l’IVA fine a se stessa. IVA è l’acronimo di Imposta di Valore Aggiunto, così per levarcelo davanti. Detta così, però, ne sappiamo tanto quanto prima. L’imposta è una tassa. In gergo tecnico, una tassa vera è propria è una somma dovuta allo Stato per cui si conosce già la destinazione finale. La TARI, per esempio, è la TAssa sui RIfiuti: i suoi proventi saranno destinati tutti e solo per la gestione dei rifiuti urbani del Comune per cui la si paga. Le imposte, invece, sono pur sempre tasse in senso volgare, ma non si conosce, a priori, la loro destinazione finale. Vengono versate nelle casse dello Stato, banalmente un conto corrente gestito dalla Tesoreria dello Stato Italiano che raccoglie tutti i proventi di tutti i tipi di imposte. Sarà una legge finanziaria successiva, di cui avrete sicuramente sentito parlare, a deciderne la destinazione d’uso finale in un secondo momento. Poi ci sarebbero i contributi, come quelli dell’INPS, che sono una via di mezzo: hanno una destinazione d’uso predeterminata, ma vengono raccolti in unico posto come succede per le imposte. Quindi, se proprio volete, siete autorizzati a pensare all’IVA come ad una tassa.
Cosa significano le parole Valore Aggiunto applicate ad una imposta? Qui dobbiamo allargare un attimo i nostri orizzonti. Case, scuole, strade, ferrovie, porti, aeroporti, ospedali, soccorritori di vario tipo… Ovviamente, qualcuno dovrà pagare, per tenere in piedi tutti questi servizi, no? Si dice sempre che lo fa lo Stato, quasi fosse un’entità ultraterrena, capace di creare dal nulla tutto l’occorrente. Non è così e lo sappiamo tutti, anche se ci viene in mente solo quando se ne parla espressamente. In realtà, tutti gli Stati del mondo adottano le loro tecniche per autofinanziarsi, magari leggermente diverse da caso a caso, ma complessivamente molto simili. Per rimanere in tema, ho sentito spesso lamentare che l’IVA è una cosa tutta italiana: niente di più falso! Qualcosa come 140 Paesi, in tutto il mondo, adottano questa imposta sui consumi, come viene chiamata più chiaramente altrove. Per esempio, nei paesi anglosassoni si chiama VAT (Value added tax), ma è la stessa cosa. L’Italia non è neanche il paese con l’IVA più alta in assoluto: nel 2025, l’Ungheria applica un’IVA del 27%, mentre l’Italia ce l’ha al 22%. Poi ci sono Paesi, come gli Stati Uniti, dove l’IVA non c’è, ma esistono le Sales Tax: nome diverso e diverso metodo di riscossione, ma fondamentalmente con lo stesso scopo finale. Ci sono anche Paesi che non tassano assolutamente i consumi, ma provvedono diversamente a raccogliere fondi. A parte la parentesi informativa, quindi, l’IVA è semplicemente un metodo come un altro per finanziare lo Stato, nel nostro caso quello italiano.
Praticamente parlando, come funziona l’IVA? Immaginiamo qualcosa di semplice, come il supermercato sotto casa. Quando fate la spesa, il cassiere di turno vi chiederà una cifra. Se leggete bene lo scontrino, troverete che la cifra che dovrete pagare è pari ad una certa cifra più l’IVA calcolata su quella cifra. Detta più semplice, se il vostro scontrino è esattamente di €122, avrete un valore reale di merce da pagare pari a €100, mentre €22 sono l’IVA che andrà allo Stato. E si! Ogni esercente è anche un po’ esattore delle tasse per conto dello Stato, il che semplifica tutta la trafila burocratica. Quei soldi in più, naturalmente, l’esercente dovrà pagarli allo Stato per conto vostro. Ne discendono diverse considerazioni. La prima è che la partita IVA è un codice che autorizza il tizio che ne ha fatto richiesta a farsi pagare per un’attività propria, ma automaticamente lo mette di fronte ad obblighi che non hanno quelli senza una propria attività. La seconda è che se volete pagare meno tasse, la tecnica migliore è comprare meno roba, altro che canone RAI! La terza è che ogni esercente che crede che lo Stato gli rubi ogni mese il 22% degli incassi non ha capito una beneamata mazza di come funzioni tutta la faccenda. La quarta è che, ogni volta che non vi fanno lo scontrino, voi pagate la merce il 22% in più del suo valore reale, ma i soldi li intasca l’esercente invece dello Stato… La quinta: ogni cosa comprata vale il 22% in meno un secondo dopo che l’avete pagata. Ad essere precisi li valeva anche prima: il punto è che l’IVA su un prodotto si paga una sola volta. Quindi, per principio, l’usato deve sempre costare almeno il 22% in meno del nuovo, perché il valore reale del bene è quello IVA esclusa! Per la verità esiste un regime IVA del margine che riguarda le aziende che trattano beni usati, per cui l’affermazione precedente è vera solo per trattative tra privati.
Dopo tutta questo sermone, dovrebbe essere chiaro che, in linea di principio, per vendere bisogna necessariamente avere una partita IVA e, di conseguenza, un qualche genere di attività. Dovrebbe essere altrettanto chiaro che, chiunque acquista un prodotto, deve pagare l’IVA per forza. Per semplicità, ho lasciato perdere la casistica dei prodotti con IVA ridotta oppure del tutto esenti, perché non riguardano il mondo dei videogiochi. Ci sono, ma non interessano noi.
Quindi per vendere serve necessariamente la partita IVA, vero? La cosa vi lascerà basiti, ma la risposta è no. Un esempio lo abbiamo già fatto prima, incidentalmente: l’usato, in caso di trattative tra privati, è esente da IVA perché l’imposta si paga una sola volta per lo stesso prodotto. Tornando alla vendita fine a se stessa, è definita, tecnicamente parlando, come la cessione di beni o servizi in cambio di denaro. I beni sono quelli materiali e tangibili, ovviamente. Parliamo di roba come sedie, libri, cibo… I servizi sono gli altri, come una consulenza professionale chiesta ad un medico, l’abbonamento ad una utenza telefonica e, in genere, tutto quello che non vi portate fisicamente a casa. E’ normale quindi, soprattutto se ponete male la domanda, che un commercialista vi risponda che non si può vendere se non essendo in possesso di una partita IVA.
E se voi, invece di beni o servizi, vendeste tutt’altro? Allora, forse, sareste in grado di porre meglio le giuste domande al vostro commercialista e, magari, potreste vendere anche senza partita IVA… Magari non lo chiamereste vendere, ma i soldi li portereste a casa ugualmente. Per andare oltre, però, dobbiamo prima parlare di Copyright e Diritti d’autore.